Nelle scorse settimane è uscito al cinema Rogue One, l’ultimo capitolo della saga di Star Wars. Diretto da Gareth Edwards – famoso per Monsters (2008) e Godzilla (2010) – la pellicola è una storia ambientata nell’universo sci-fi creato da George Lucas e si pone il compito di fare da ponte tra l’episodio III e l’episodio IV raccontando uno dei momenti più importanti nella storia dell’Alleanza Ribelle: la missione che ha portato al furto dei pieni segreti della Death Star, l’arma più minacciosa e terribile dell’Impero.

Introduzione

L’editoriale che state leggendo è una recensione a quattro mani composta da Deiv e Luca, nel corso della quale si cercherà di mettere in luce non solo i pregi della pellicola ma anche tutto ciò che non ha del tutto funzionato.
La recensione è frutto di una visione “doppia” dell’opera, in quanto i vostri prodi han visto Rogue One prima in lingua italiana e poi, alcune settimane dopo, in lingua originale. Questo fatto crediamo permetta di formulare un giudizio più completo e sincero sulla pellicola, basato su elementi concreti e tangibili.

Se dovessimo descrivere Rogue One in poche parole, potremmo dire che lascia i fans soddisfatti e, come un solido ponte, collega le due trilogie in modo chiaro e netto. Proviamo ora a capire meglio quest’affermazione scendendo nel dettaglio.

Novità nella tradizione? Estetica ed effetti speciali

Partiamo dagli effetti speciali e dall’estetica della pellicola. Fin dalle prime battute, Rogue One appare come un film dall’estetica atipica e, in un certo senso, diversa dagli altri film dell’universo di Star Wars.

Proviamo, ad esempio, a osservare le inquadrature usate nella prima parte della vicenda, quella nella quale ci viene raccontata l’infanzia di Jyn Erso. Attraverso l’alternanza di campi lunghi/lunghissimi e piani ravvicinati Gareth Edwards mette in scena una storia che pare uscita da uno dei tanti film sci-fi degli ultimi anni ma… non da quelli dedicati a Star Wars.

Inoltre il regista compie altre scelte “di rottura”, volte principalmente a “sovvertire” e cambiare alcuni degli elementi più iconici della saga, mantenendo però nel complesso una sensazione di “tradizione” e “familiarità”. A tal proposito possiamo citare i due casi più eclatanti: la mancanza della narrazione “a rullo” iniziale e le didascalie che, mai apparse prima in un film della saga, identificano in modo chiaro i vari mondi su cui i nostri protagonisti sbarcano per compiere la loro opera.

Queste scelte, a mio parere (Luca), son state ovviamente operate per “mescolare le carte in tavola” e infondere nuova linfa in un canovaccio che – diciamoci la verità – stava diventando forse fin troppo uguale a se stesso.

Le scene iniziali, oltretutto, sembrano delle cartoline che ci regalano sprazzi dell’universo non ancora esplorati. Le inquadrature assieme alla scelta dei colori viziano l’occhio a una visione dark del post “Clone Wars”, dove l’impero deve ancora acquistare il suo ruolo tra i pianeti del senato e i ribelli sono frammentati. I colori in queste scene sono caratteristici e rendono unici e facilmente distinguibili le ambientazioni di scena oltre dare un’atmosfera cupa all’intera pellicola.

Al contempo. però, il regista sceglie consciamente di riproporre e lasciare intatti alcuni degli elementi visivi che rendono Star Wars un marchio universale e riconosciuto da tutti. Sto facendo riferimento a due elementi ben precisi: il movimento di macchina verso l’alto che apre ogni film della saga fin dagli anni Settanta e la dissolvenza “a cerchio” che precede i titoli di coda e il tema ormai iconico composto da John Williams.
Il mantenimento di tali capisaldi, nell’economia del film, rende ancora più efficace l’inserimento delle novità. E’ come se lo stesso Edwards volesse farci capire che anche la macchina più oliata e perfetta di questo mondo può ogni tanto concedersi delle novità e delle piccole “migliorie”, create al fine di rendere ancora più godibile il prodotto.

Proprio sul fronte della “goduria” visiva, un plauso va a Neil Corbould e John Knoll, responsabili per gli effetti speciali. Rogue One è una festa per gli occhi e ogni piccolo dettaglio ed effetto funziona a meraviglia e conferisce quel tocco in più a un’opera che è già ricca e piena di elementi fortemente positivi. Dove riprendono i modelli degli anni 70 (andando a pescare chicche per gli appassionati della saga) riproducono lo stesso piacere visivo che si può avere con le versioni originali (de-specialized per gli appassionati) dei film: la pulizia dei modelli e delle azioni sono una gioia per gli occhi.

Il punto più alto viene toccato con la “rinascita in cgi” di Peter Cushing. Scomparso nel’ormai lontano 1994, l’attore britannico ritorna a calcare la scena nei panni dell’iconico Grand Moff Tarkin che, nel film, ha un ruolo non solo di tutto rispetto ma assolutamente vitale nello svolgimento dell’intera vicenda. Se è vero che il Cushing digitale ha ancora alcune piccole magagne – non si può infatti ancora parlare di perfetto fotorealismo – la strada sembra ormai tracciata e si spera che, anche in questo campo, si sperimenteranno soluzioni sempre più innovative.

Dal mio (Deiv) punto di vista, questo riesumare i morti non è ancora a un livello da cinema di massa, sembra ancora una ricostruzione di serie B. Allo stato delle cose, sembra di guadare una caricatura Pixar del personaggio e non rende giustizia all’attore originale, non valeva la pena forse solo citarlo? Lasciarlo più in ombra? Alla fine ha più tempo a schermo dei personaggi principali ed è proprio difficile non notare cosa non funziona (oltre a livello etico) tecnicamente in questa ricostruzione. La digitalizzazione delle espressioni facciali è una delle sfide più grandi della computer grafica, come anche una realizzazione dei toni della pelle particolarmente sensati, e non parlo di tecnicismi, dove andrebbe modificato il modello 3D è abbastanza evidente..

Eredità pesanti. La musica e il doppiaggio

Il film funziona bene anche dal punto di vista sonoro, gli effetti sono riconoscibili (ma non riciclati male come faceva Lucas) e le musiche si alternano tra quelle di Williams e quelle composte da Gioacchino a mo di “remix” di quelle vecchie: i temi sono più evidenti rispetto al settimo e più apprezzabili.
Nella versione italiana segnaliamo un doppiaggio scadente sia nella qualità sonora che nella traduzione dei dialoghi: che sta succedendo nella patria del doppiaggio? Davvero hanno tradotto “Ti amo” il “I love you” di una figlia al padre?

A parte il doppiaggio con l’effetto “scatoletta”, le musiche sono ben posizionate e guidano emotivamente lo spettatore nei momenti più tragici finalmente facendolo sentire nell’universo della saga. Non sono ancora ai livelli di epicità delle colonne sonore originali, ma sono fatte bene. Forse il fatto di voler rimanere ancora legati alle composizioni originali frena il movimento creativo, e sarebbe ora di provare a distaccarsi un minimo per trovare qualcosa di nuovo, ma è più un messaggio che si riferisce ai nuovi della saga ufficiale, coloro che dovranno dare freschezza al franchise.

In a galaxy far, far away… La vicenda

Soffermiamoci ora sulla trama della pellicola. Il film racconta la storia di come un manipolo di Ribelli sia riuscito a rubare i piani segreti del più grande e pericoloso progetto mai concepito dall’Impero: un’arma – dal minaccioso nome di Death Star – capace di frantumare interi pianeti, seminando morte e distruzione tra le fila di coloro i quali non accettano ancora di piegarsi totalmente al progetto di conquista imperiale.

A dispetto delle teorie circolate per mesi in Rete, alcune delle quali palesemente campate per aria, il film si chiude nell’unico modo possibile. Non ci sono né lavaggi di cervello, né trappole a base di carbonite (quelle sono riservate solo ed esclusivamente a Han Solo) ma, molto più prosaicamente, la morte dell’intero cast. I nostri eroi, infatti, sanno fin da subito di essere stati chiamati a compiere un missione suicida. Pur riuscendo nel loro intento, finiscono però col morire, sacrificandosi per un bene superiore.

Una semplice complessità: la sceneggiatura

Frutto del lavoro di Chris Weitz e Tony Gilroy – quest’ultimo chiamato anche alla supervisione delle riprese aggiuntive e del montaggio finale della pellicola – la sceneggiatura di Rogue One è eccezionalmente “semplice” ma allo stesso tempo fortemente stratificata.
Per quanto riguarda il primo aspetto, gli sceneggiatori guidano con mano sicura gli spettatori e – coadiuvati dalle scelte registiche – riescono alla fine a raccontare la vicenda senza troppi fronzoli inutili.

E’ innegabile che la prima parte della storia è forse un po’ troppo lenta – anche se tale lentezza è funzionale nel presentare la pletora dei protagonisti e le loro motivazioni – ma appena si giunge a metà pellicola, il ritmo cresce vorticosamente fino a toccare l’apice con la battaglia finale, un vero e proprio fuoco di fila che non lascia scampo e che ci porta lentamente verso la conclusione che riserva ancora alcuni “botti” di ottima fattura.

Una semplice complessità: i personaggi

All’interno della storia, come in una gigantesca matassa, si snodano le avventure dei protagonisti che, nell’ottica dell’universo in cui operano, possono essere visti come dei “perdenti” in cerca di un possibile riscatto. In un mondo in cui i più potenti guerrieri – i Jedi – sono stati sterminati, la Forza è stata ridotta quasi a una superstizione e un Impero feroce e dispotico sta conquistando pezzo a pezzo tutta la galassia, i nostri personaggi sono dei perfetti outcast, dei reietti che navigano in un mondo in rovina e in frantumi.

Abbiamo la protagonista femminile, Jyn, figlia del (riluttante) scienziato incaricato di portare a termine la Death Star, l’arma definitiva dell’Impero; un giovane soldato – Cassian – pronto a servire fino alla fine la causa della Ribellione ma contemporaneamente tormentato dai rimorsi; un robot imperiale riprogrammato (ma dalla battuta sempre pronta e tagliente); un pilota che ha deciso di ammutinarsi ma soprattutto quelli che, a mio parere, sono i personaggi più riusciti: Chirrut Îmwe e Baze Malbus.

Questa strana coppia – un monaco guerriero cieco e un cacciatore di taglie – rappresentano perfettamente il mondo in cui vivono e operano, nel quale la meraviglia e la magia (la Forza, i nobili ideali incarnati dai Jedi) sono state sostituite dalla decadenza e da un profondo sentimento di freddo realismo.
I due, poi, sono perfetti opposti: se Chirrut continua a essere ostinatamente attaccato a un misticismo che appare ormai superato (o forse no?), Baze ha smesso di credere e preferisce affidare la sua vita non tanto al “potere della Forza” quanto alle sue doti di soldato e infallibile tiratore scelto.

Nel nutrito cast spiccano non solo le prove dei buoni – con un particolare plauso a Felicity Jones, Donnie Yen e Jiang Wen – ma anche quella di Ben Mendelsohn. Quest’ultimo interpreta Orson Krennic, un cattivo che si trova nella non facile posizione di dover tenere testa non solo ai Ribelli ma anche ai fitti intrighi politici che lo porteranno a scontrarsi – e a perdere – contro il Grand Moff Tarkin.

Un aspetto che mi ha regalato gioie è vedere come i personaggi della vecchia saga ne vengano riletti, enfatizzati, rivalutati. Se nell’episodio IV Darth Vader sembra un po’ sopra le righe rispetto alla versione depressa del III, dopo Rogue One acquista carattere. Gli “attori” politici della ribellione hanno spessore e nel complesso rivedere la vecchia trilogia ora ha un significato più ricco. Un aspetto invece negativo è legato al tempo scenico: va bene, sono tanti personaggi, ma ne perdiamo in profondità. I primi Star Wars si facevano con 4 umani, due droidi e un “tappeto” che cammina, in cui già era difficile scoprirne le sfaccettature. Ora partiamo con una squadra corposa, tutti elementi interessanti, che in pellicola si traduce in poche, pochissime battute ciascuno e poco background, forse limitarne il numero avrebbe permesso un effetto di affezionamento maggiore utile anche per un finale più “sentito”.

A new (newer?) Hope. I temi

Come abbiamo visto, il cast di Rogue One è molto ben nutrito e, al netto di tutto, l’intera vicenda ruota attorno alle sorti di ben sei protagonisti. Ma cosa tiene insieme un manipolo di persone, all’apparenza, così diverse tra loro e mal assortite? La speranza. Questo termine, che è ripetuto più di una volta all’interno della pellicola, è il vero tema centrale e dominante dell’opera.

Qui si nota, per l’ennesima volta, la bravura degli sceneggiatori che, al posto di lasciarsi andare a un “pippone” moraleggiante sul tema, preferiscono mostrare concretamente questo concetto in azione. Il regista dimostra di poter inserire una morale bella perché condivisibile (sebbene possa anche essere interpretata come critica di alcune situazioni reali) senza dover essere pedante e noioso. Qui si ha un vero Star Wars, un vero degno prequel di saga che ne rispetta i canoni e messaggi. La pellicola ci mostra infatti che la speranza non è mai qualcosa di passivo ma deve essere sempre accompagnata a un’azione, a una scelta. I nostri protagonisti – chi più, chi meno – sanno che l’Impero sta costruendo un’arma in grado di rendere praticamente inutile qualunque sforzo volto alla ribellione.

“that’s no moon..”

Eppure i nostri (e soprattutto Jyn, colei che più di tutti si fa “ambasciatrice” di tale messaggio) non si danno per vinti e, con tutte le loro forze, lottano per sovvertire lo status quo: d’altronde, anche soli dieci soldati possono tenere sotto scacco un avamposto imperiale se sono motivati e decisi a compiere la loro missione, per quanto dall’esito suicida.

Un ultimo elemento molto interessante riscontrabile nel film è che anche le motivazioni dei cattivi sono, in un certo senso, logiche e politicamente valide. Se è vero che nel settimo capitolo della saga la componente politica era quasi del tutto assente, Rogue One ritorna invece all’antico e sceglie di non lesinare su questa componente.
Se da un lato abbiamo un Impero in divenire, in cui le vecchie strutture della Repubblica stanno lentamente cedendo il passo a un governo dispotico di un uomo solo, dall’altro troviamo dei Ribelli inizialmente incapaci di agire all’unisono. Sono loro infatti che, consci di essere ancora troppo frammentati al loro interno, non acconsentono alla proposta di Jyn a proposito del furto dei piani, lasciando la nostra protagonista a compiere quest’impresa con un manipolo di volontari, veri e propri rogue, canaglie dal passato controverso ma pronti a fare la cosa giusta, al momento giusto.

In conclusione

Lo spazio a nostra disposizione volge al termine ed è quindi meglio provare a tirare le somme. Il film è davvero piacevole da seguire, anche se potrebbe far storcere il naso a un “non-fan” della saga, ma potrebbe storcerlo con qualunque Star Wars. Il confronto con il settimo episodio è d’obbligo e mentre l’anno scorso ci siamo trovati davanti a un film ricco d’azione, merchandise e citazioni forzate in un titolo che rimaneva povero di contenuto, qui abbiamo uno Star Wars degno del suo posto affianco alla prima trilogia. Le note negative sono date da alcune scelte, ahinoi, dettate dal marketing: è noto a tutti che i trailers hanno scene del film che poi nelle sale sono state rimosse o cambiate e il regista sia stato affiancato, dopo il primo montaggio, da un tecnico voluto dal marketing per correggere il film. Questo ci lascia un po’ di amaro in bocca, come dire, abbiamo visto un bel film, ci è piaciuto ed è nei canoni, ma.. come sarebbe stato senza i tagli? E se fosse dovuto essere più dark di come ci è stato presentato in sala? Saremmo pronti ad avere uno Star Wars veramente agrodolce?

  • Scimmia
  • Storia
  • Effetti
  • Presa
4.3

Riassunto

Il film non è stato promosso al meglio e alcune scelte di marketing sembrano volte a sminuirlo senza un motivo pratico. La storia funziona, gli effetti sono favolosi e si rimane incollati alla poltrona senza problemi. Film consigliato a tutti i fan della saga e di gradevole visione anche per chi si avvicina all’universo per la prima volta. Consigliato in Inglese.