Rupture, film del 2016, rappresenta il ritorno dietro alla macchina da presa di Steven Shainberg. Il regista, che si era fatto notare con titoli come Secretary (2002) e Fur (2006), era successivamente sparito dalle scene senza troppi complimenti.
Dieci anni dopo la sua ultima fatica Shainberg decide di virare verso l’horror dalle tinte sci-fi e sceglie, come attrice principale, Noomi Rapace. Il risultato? Proviamo ad analizzarlo insieme.
Il segreto è dentro di noi…
Il film racconta la storia di una giovane mamma divorziata con figlio a carico. La donna, che prova una fobia incredibile per i ragni, vive la sua placida vita in un tipico sobborgo americano ma, a sua insaputa, viene giornalmente spiata e pedinata da alcuni loschi figuri.
Un giorno, percorrendo una strada isolata, la donna viene catturata dai suoi assalitori e condotta in luogo segreto: un’enorme struttura dalla pareti rosso sangue. La protagonista, ben presto, si renderà conto di non essere sola nella struttura ma che, altri prima di lei sono stati catturati. Ma chi sono i suoi assalitori? Cosa vogliono esattamente da lei e dagli altri prigionieri?
Dopo una lunga serie di peripezie, la donna verrà messa al corrente di un fatto, ovvero quello di essere con molta probabilità l’unica speranza per l’intero genere umano.
Una questione di genere?
Rupture è un prodotto caratterizzato dalla presenza di molte suggestioni e temi cari al cinema horror, al thriller e alla fantascienza. Questa commistione – sulla carta molto gustosa – si rivela però un’arma a doppio taglio.
Il regista, infatti, il più delle volte sembra essere molto dubbioso sulla direzione da dare al film e, al contrario, preferisce lavorare per accumulazione andando mano a mano ad aggiungere nuova carne al fuoco.
Il risultato finale è un prodotto che “non sa esattamente cosa vuol fare da grande” e finisce per lasciare in sospeso troppe questioni che, se meglio sviluppate, avrebbero sicuramente giovato al risultato finale.
Questo continuo passare da un genere all’altro, inoltre, risulta alla lunga alquanto fastidioso. La storia della protagonista, la brava Noomi Rapace, non si sviluppa in modo del tutto coerente e neppure i due grossi twist riescono a salvare il risultato finale.
Questo senso di “non finito” e di “né carne, né pesce” è forse il maggior limite della pellicola che, al contrario, può vantare alcuni pregi innegabili.
Un’ossatura solida per un risultato mediocre
In primo luogo, il cast. Noomi Rapace può contare su comprimari di tutto rispetto come Peter Stormare e Michael Chiklis che riescono ad apparire sempre convincenti e, nella loro bizzarria, totalmente in grado di portare avanti la pellicola.
Un altro innegabile pregio è rappresentato dall’atmosfera. Il film è profondamente segnato da una persistente vena di inquietudine e di paranoia. Le musiche, gli ambienti e la recitazione non fanno altro che rendere più palesi questi elementi, riuscendo a far sembrare tese anche quelle situazione all’apparenza banali o scontate.
Purtroppo, come detto, questi elementi positivi non bastano a salvare la pellicola anche se, in un certo senso, non la fanno istantaneamente piombare nel girone infernale dei film brutti.
In conclusione
Rupture è un film mediocre. E’ questo forse un difetto? In questo caso l’unica risposta possibile è un si deciso. La pellicola, la cui premessa è accattivante, non riesce a convincere gli spettatori che, a fine visione, saranno alquanto rammaricati dalle tante occasioni sprecate e dalla sensazione che, limando meglio la sceneggiatura, l’opera avrebbe potuto dire la sua nell’affollato panorama della cinematografia statunitense di genere.
In conclusione
Rupture è un film dalle molte identità: un po’ horror, un po’ thriller, un po’ sci-fi. Il regista, pur potendo contare su un cast di ottimo livello, non sembra essere in grado di mescolare in modo convincente tutti questi elementi, finendo inevitabilmente per presentare un prodotto a tratti debole e sfilacciato. Questa mediocrità di fondo è ciò che non permette alla pellicola di raggiungere la piena sufficienza.