Nel 2014 apparve in contemporanea (o quasi) sugli schermi giapponesi e su quelli statunitensi una piccola serie intitolata Space Dandy. Prodotta dalla Bones e sceneggiata da Dai Satō, autore di alcuni “piccoli lavoretti” come Cowboy Bebop e Wolf’s Rain, i ventisei episodi che compongono l’opera vedono alla regia Shin’ichirō Watanabe.
Nato nel 1965, Watanabe – per chi non lo conoscesse o avesse vissuto in una caverna fino a oggi – ha diretto tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del nuovo secolo alcune pietre miliari dell’animazione giapponese come il già citato Cowboy Bebop (1998) e la “Samurai hip hop opera” Samurai Champloo (2004), entrambe ampiamente trasmesse anche nel nostro paese. Allo stesso tempo il regista si è distinto per opere all’apparenza minori (o forse sarebbe meglio dire meno note al grande pubblico) come Zankyō no terror (2014) e l’adattamento per la televisione del manga Sakamichi no Apollon (2012). Space Dandy rientra di diritto in questa seconda categoria: una serie in cui si riconosce il tocco del regista ma che, per vari motivi, è finita nel dimenticatoio.
Diario minimo di un dandy spaziale
Space Dandy: he’s a dandy guy in space. He combs the galaxy like his pompadour on the hunt for aliens.
Ogni episodio si apre con queste parole, recitate in maniera ampollosa da un voce narrante. Fin da subito la serie, che ironizza sui vari cliché tipici della space opera, invita lo spettatore a sedersi più o meno metaforicamente in poltrona, recuperare una confezione gigante di popcorn e lasciarsi guidare per venti minuti o poco più in vicende che solo all’apparenza appaiono bizzarre e sconclusionate.
La serie racconta le vicende della nave spaziale Aloha Oe e dei suoi abitanti. Il primo, Dandy, è un cacciatore di taglie ossessionato da un preciso particolare anatomico femminile, un inguaribile maschilista sempre pronto a gettarsi in una nuova avventura. Il nostro, il cui look ricorda quello associabile alla sottocultura Bōsōzoku, passa la sua vita tra la spasmodica ricerca di alieni rari da portare a far censire al più vicino Space Alien Registration Center e intere giornate spese a far nulla in un locale chiamato – nomen omen – Boobies (evidente parodia del noto locale statunitense Hooters).
Un aspirapolvere e un gatto come compagni di avventure
Nel corso delle sue peregrinazioni, Dandy è sempre accompagnato da due assistenti: QT e Meow.
Il primo è un robottino per molti versi simile a un aspirapolvere che, un tempo, era considerato il meglio sul mercato. Purtroppo, si sa, il progresso tecnologico non risparmia neppure gli assistenti robotici e il povero QT si trova nel corso della serie a essere visto e trattato come un modello obsoleto, dotato di un hardware per nulla all’avanguardia. Amante dell’ordine e della pulizia, fino a raggiungere livelli maniacali, è la voce della ragione all’interno della ciurma.
Meow è invece un essere dalle fattezze feline proveniente da Betelgeuse, la seconda stella più luminosa della costellazione di Orione. Giunto a bordo dell’Aloha Oe a causa di un errore causato da Dandy – che lo aveva catturato sperando di avere tra le mani un alieno raro – il nostro gattone è il fido consigliere di Dandy, sempre pronto a fornire utili (?!) indizi al capitano su dove e come catturare nuovi esseri e forme di vita sconosciute.
Ma perché dovrei seguire la serie?
Ricapitolando abbiamo: un capitano maschilista che pare un incrocio tra il Kirk di shatneriana memoria e John Travolta in Grease, un robot leggermente maniaco e non aggiornato agli ultimi standard tecnologici e un gatto petulante e un po’ malmostoso. Cosa spinge un qualunque spettatore sano di mente a continuare la visione di un simile show?
La risposta è contenuta nel Watanabese’s touch.
There’s Always Tomorrow, Baby
Senza scendere troppo nei dettagli (e contestualmente trasformare questo pezzo in un mezzo trattato filosofico contenuto in 40000 semplici e agili volumi) nel corso della serie è possibile riconoscere alcuni elementi che appaiono totalmente coerenti con l’estetica del regista e che rimandano, dritti dritti, a un’altra sua opera: Cowboy Bebop.
Per prima cosa Dandy, QT e Meow sono dei simpatici losers che, apparentemente meschini e pieni di difetti, nascondono un cuore d’oro e la segreta volontà di migliorarsi e rendere la galassia un posto meno triste e vuoto. La stessa cosa, in un certo senso, valeva anche per la crew del Bebop: una banda di sconfitti dalla vita che cercano più o meno con successo di fare i conti con i loro limiti (e il loro passato), superandoli.
Altra caratteristica che accomuna le due serie e il costante rimando a vari elementi più o meno noti della cultura pop. Ogni episodio contiene almeno una strizzata d’occhio o una citazione più o meno palese di una canzone, un anime/manga, un videogioco o di una pellicola giapponese, europea o americana. Queste citazioni non appesantiscono la narrazione ma, anzi, non fanno altro che permettere allo spettatore di entrare nel metaforico “salottino culturale” del regista, sempre pronto a mescolare sapientemente l'”alto” con il “basso”, dipingendo così un affresco composito ma allo stesso tempo lieve e in grado di intrattenere e stupire anche i più esigenti.
Infine, l’ultimo punto che a mio parere accomuna Space Dandy a Cowboy Bebop, e che forse rappresenta uno dei maggiori punti di forza della serie, è la cura maniacale per i personaggi e per la musica. Per quanto il primo aspetto, nel corso delle ventisei puntate inizieremo lentamente a conoscere il passato dei vari personaggi, finendo irrimediabilmente per capire che sotto la loro rozzezza e piccineria si nascondono delle vite lacerate e consumate da eventi che hanno lasciato segni indelebili nelle loro anime.
Anche i dandy hanno un’anima
Tre episodi sono, in questo senso, illuminati. Il primo è There’s Always Tomorrow, Baby, totalmento dedicato a Meow alla sua famiglia. La puntata, oltre a farci conoscere e apprezzare meglio il nostro gattone, ci regala una perla di rara fattura, in puro stile nonsense. Nel corso della vicenda, infatti, i nostri (im)pavidi eroi sono costretti a rivivere il medesimo giorno, in un apparentemente e infinito loop spazio-temporale. Dopo aver capito che la ragione del loop è un piccolo calendario da tavolo, le cui pagine sembrano misteriosamente incollate le une alle altre, Dandy decide di fare l’unica cosa logica per raggiungere il domani, il futuro:
Il secondo è Even Vacuum Cleaners Fall in Love, Baby in cui QT è al centro della scena. Il nostro aspirapolvere, innamoratosi di una bella ma vecchia macchina per il caffé da bar, farà di tutto per riabbracciarla e per prendere consapevolezza che anche i sistemi non aggiornati, forse, hanno ancora qualcosa da dire o da dare.
Infine abbiamo The Transfer Student is Dandy, Baby un episodio che sembra il figlio illegittimo di una notte di passione tra Grease e High School Musical, solo molto più divertente e scanzonato. Senza fare spoiler, la puntata ci regala un Dandy in grande spolvero che, per la prima volta, mostra il suo vero volto agli spettatori.
Musica, maestro!
Per quanto riguarda, infine, la musica la serie è accompagnata da un mix interessante e curioso di melodie scanzonate e pezzi leggermente più seri (ma mai seriosi). L’opening Viva Navida, ad esempio, è cantata da Yasuyuki Okamura – icona pop giapponese degli anni Ottanta autore della sigla di chiusura di City Hunter 2 (1988-1989) – e anche nel corso degli episodi ci sono alcuni momenti musicali di altissimo livello. Tra essi, vale la pena di citare quello che accompagna una delle scene più spassose di The Transfer Student is Dandy, Baby:
In definitiva, Space Dandy è un must watch non solo per gli amanti di Watanabe o per chi ama le commedie che si tingono di parodia ma anche, e soprattutto, per chi cerca qualcosa di scanzonato, fresco ma allo stesso tempo in grado di lasciare nella propria mente un ricordo persistente e duraturo.