Per molti, i nomi di Joel Jewett, Mick West e Chris Ward non rappresentano nulla. In realtà questi tre personaggi fondarono una delle software house più interessanti, e in un certo senso carismatiche, della seconda metà degli anni Novanta: la Neversoft.
I primi passi…
Nel luglio del 1994 i tre amici decisero di abbandonare il loro posto di lavoro alla Malibu Interactive, parte della casa editrice Malibu Comics, per dare il via a un progetto tutto loro. La scelta non era affatto casuale o immotivata: siamo infatti negli anni del pieno boom delle console a 16 bit come il Sega Mega Drive e il Super Nintendo, i cui giochi venivano sfornati a ritmi quasi vertiginosi e, il più delle volte, erano sviluppati da una manciata di persone. Staccarsi da una powerhouse in piena crisi come la Malibu Interactive per dare il via a un progetto indie, quindi, era un rischio calcolato.
La nuova software house, denominata Neversoft, sviluppò in prima battuta un gioco dedicato a Skeleton Warriors, uno dei tanti cartoon trasmessi dalla rete televisiva statunitense CBS e che, alcuni anni dopo, sarebbe perfino giunto sulle frequenze di Italia Uno.
Il videogame, un action senza troppe pretese se non quella di “mungere” quel brand fino in fondo, non fu però sviluppato per le console a 16 bit ma per una piattaforma di nuova generazione che, di bit, ne poteva vantare ben 32: il Sega Saturn. La software house, pur accettando questa sfida, decise di correre preventivamente ai ripari assumendo nuovo personale e, dopo varie traversie, il gioco raggiunse gli scaffali alla fine del 1995 mentre l’anno successivo la Neversoft realizzò un porting per PlayStation.
Tentare il grande salto
Forti del successo ottenuto grazie al primo gioco, la software house iniziò a conoscere, tra il 1996 e il 1997, un periodo di grande sviluppo che toccò il suo apice con l’ambiziosa decisione di sviluppare un titolo ex novo intitolato Big Guns. Parallelamente a questo progetto, i ragazzi californiani intrapresero il porting per PlayStation di un gioco per PC intitolato MDK, uno shooter in terza persona sviluppato originariamente dalla Shiny Entertainment.
La troppa pressione, si sa, gioca brutti scherzi e la Neversoft, dopo lo splendore, conobbe un’epoca buia: il porting di MDK si rivelò più difficile del previsto e, alla fine del 1997, il progetto Big Guns venne ufficialmente cancellato. La software house, in procinto di dichiarare la bancarotta, ebbe però un incontro alquanto inaspettato e, in prospettiva, portatore di un’incredibile svolta. Nel gennaio del 1998, infatti, la Activision si mise in contatto con la Neversoft facendo loro la classica “offerta che non si può rifiutare”, ovvero portare a compimento un progetto ambizioso e che aveva come protagonista uno degli attori più importanti di quegli anni: Bruce Willis.
Praise the Lord and pass the ammunition
Con queste parole veniva presentato al grande pubblico un gioco chiamato Apocalypse. Nel corso dell’avventura i giocatori erano chiamati a vestire i panni dello scienziato Trey Kincaid che, dotato di un’arma multifunzione, avrebbe dovuto vedersela contro gli sgherri del misterioso Predicatore, deciso a spazzare via la razza umana scatenando, appunto, l’Apocalisse. Lo shooter, che mischiava elementi di stampo biblico a richiami sci fi abbastanza classici, poteva non solo contare sulla carismatica presenza di Willis, che non aveva solo offerto al progetto la sua voce ma anche le sue fattezze a seguito di intense sessioni di motion capture, ma anche su un sistema di controllo in grado di sfruttare mirabilmente entrambe le levette del controller PlayStation.
Apocalypse, inoltre, era mosso da un motore grafico di tutto rispetto che, pur non facendo gridare al miracolo, compiva egregiamente il proprio mestiere. Essendo l’informatica la patria del riciclo, l’engine del gioco non era stato sviluppato ex novo ma altro non era che quello di Big Guns, con alcune lievi e quasi impercettibili limature.
Trick, flip e altre follie: Neversoft sulla cresta dell’onda
Il successo del gioco lanciò la Neversoft nell’Olimpo degli sviluppatori e, tra il 1999 e il 2000, i ragazzi californiani sfornarono sempre con Activision due titoli in un certo senso epocali: Tony Hawk Pro Skater e Spider-Man.
Il primo è IL gioco di skateboard per antonomasia. Nei panni di uno dei tanti campioni della disciplina, il giocatore è chiamato a compiere incredibili flip, aerials e grind, più o meno metaforici, per accumulare punti su punti. Il gioco, oltre alle fattezze dei diversi atleti, poteva inoltre vantare su una colonna sonora rap/rock di tutto rispetto. Il primo capitolo avrebbe dato origine a una (fin troppo) lunga serie di sequel che, a cadenza praticamente annuale (come la dichiarazione dei redditi e il Natale), proponevano lo stesso mix di follia, ignoranza e… more of the same.
Nel mio cuore rimane sempre il video introduttivo del secondo capitolo:
Molti videogiocatori come il sottoscritto, muovendo la testa al ritmo dei Rage Against the Machine, sognavano di compiere dal vero quelle acrobazie… per poi risvegliarsi, tutti sudati, e pensare che la California era lontanissima e che avere cicatrici, denti scheggiati e fratture multiple in tutto il corpo non poteva essere inserito nel proprio curriculum alla voce “Capacità”.
I nostri amichevoli sviluppatori di quartiere
Spider-Man è invece un beat ‘em up in terza persona che non ha bisogno di troppe presentazioni. Nei panni dell’Arrampicamuri, saremo chiamati a combattere contro alcuni dei più noti e amati nemici presenti nel fumetto, in una storia completamente inedita. Oltre all’ottima grafica – mossa dallo stesso engine di Apocalypse e Tony Hawk Pro Skater – il gioco riesce a tenere incollati al pad anche i giocatori più smaliziati che, oltre a deliziarsi per le continue citazioni e camei eccellenti, saranno chiamati a trovare un’infinita serie di oggetti collezionabili e unlockables che non fungono da mero orpello destinato a quelli che vogliono finire il gioco al 100% ma che ricoprono un ruolo importante anche all’interno della vicenda.
Come si fa a stare al passo con i tempi?
Il nuovo millennio segnò per la Neversoft l’inizio di un periodo che i più maligni (tra cui il sottoscritto, of course) potrebbe definire con la formula:
Create a sequel – milk the cow – cash in – do it again
In altre parole, a partire dal 2001 la software house è entrata nel circolo vizioso della produzione di nuovi capitoli di saghe già affermate (Tony Hawk Pro Skater) oppure di prodotti seriali acquistati da Activision (Guitar Hero). L’unica vera e interessante eccezione è Gun. Il titolo, che anticipa di cinque anni il più blasonato Red Dead Redemption della Rockstar Games, è un action-adventure ambientato nel selvaggio West.
La vicenda, in cui il giocatore ha il ruolo del giovane Colton White, mescola cliché del genere western con tematiche adulte come il razzismo e la segregazione. Pur ottenendo un ottimo successo di pubblico e di critica – al netto di alcune controversie scatenate da un’associazione di nativi americani – il tanto ventilato sequel, annunciato fin dal 2006, non ha mai visto la luce. Il 10 luglio 2014 infatti la Neversoft, che alcuni mesi prima era stata accorpata agli Infinity Ward, ha cessato ufficialmente di esistere.
Neversoft: un bilancio
Questa breve storia ci insegna, a mio parere, alcune cose. In primo luogo, le vicende di questa software house ci mostrano che, nel corso degli anni, il mercato videoludico mondiale ha subito una svolta molto interessante (e inquietante, allo stesso tempo). Se nei primi anni quello che contava era la creatività messa al servizio delle nuove uscite, con il passare del tempo i grandi publisher hanno preferito il “porto sicuro” dei sequel rispetto al “mare aperto” dell’innovazione. Questa affermazione non deve essere presa come un attacco frontale al sistema: parliamo sempre di business e, nella logica del mercato, è sempre preferibile andare sul sicuro rispetto a rischiare.
Infine, e mi si consenta il momento da vecchio dentro, “mai, mai mollare”. Come altre software house, anche la Neversoft è nata dalla mente di un pugno di persone che, con maestria e un pizzico di incoscienza, è riuscita nel corso degli anni a diventare una realtà sempre più solida e affermata. Pensando alla scena indie di oggi, in cui alcuni sviluppatori stentano a trovare un loro stile o un loro “marchio di fabbrica”, forse l’unico consiglio buono è: provare, riprovare e tentare ancora una volta. Alla peggio, si ricicla un motore grafico e si incrociano le dita.