Nel vasto panorama del cinema horror, i film dedicati al Diavolo o a riti di matrice satanica abbondano. Il più delle volte queste pellicole seguono un canovaccio già ben delineato, uno schema fatto di punti fissi e cliché. Non sempre i risultati sono all’altezza delle aspettative ma, a volte, alcuni registi riescono con pochi mezzi a dirigere una storia convincente e accattivante. Questo è il caso di A Dark Song, film horror irlandese del 2016 diretto dall’esordiente Liam Gavin.
Quattro passi in un altro mondo
La pellicola racconta la vicenda di una giovane madre che – dopo aver perso un figlio in circostanze misteriose – decide di rivolgersi a un occultista per portare a termine un rituale noto come Abramelin, attraverso cui sarebbe possibile evocare lo spirito dei morti.
Rifugiatisi in una casa nella campagna gallese, i due protagonisti si troveranno presto faccia a faccia con un male antico e oscuro. In questo gioco al massacro, chi sopravviverà?
Come già nel caso di The Autopsy of Jane Doe, anche questa pellicola è girata in un unico luogo e si basa interamente sulle capacità attoriali dei due protagonisti. Liam Gavin sembra trovarsi totalmente a suo agio in questa situazione: con mano sapiente, il regista-sceneggiatore accompagna gli spettatori in un viaggio dentro e fuori la mente umana, nel quale il vero orrore non è mai palese ma si nasconde negli angoli più nascosti della psiche dei due protagonisti.
Il nostro piccolo Inferno personale
Tutta la pellicola – come si è già detto – ruota attorno all’esecuzione di un rito in grado di mettere in comunicazione il nostro mondo con quello dei morti. Il rituale, caratterizzato da gesti ripetitivi e al limite dell’ossessività, viene utilizzato dal regista per analizzare alcuni temi come il senso di colpa, la perdita e l’incapacità di perdonare.
Seguendo uno schema che pare ricalcare i drammi classici, il regista propone una storia nella quale i personaggi principali nascondono alcuni piccoli e grandi segreti che, via via, verranno portati alla luce, fino all’esplosione finale. Se nella prima metà della pellicola Gavin usa un registro realistico, nell’ultimo atto tutto cambia. Due colpi di scena rimescolano le carte in tavola: le soluzioni stilistiche e visive adottate nella prima parte lasciano spazio all’incubo, al sogno febbrile.
Oltre all’ottima prova fornita dai due protagonisti, sempre convincenti e mai sopra le righe, un nota di merito va riservata alla scenografia e alla colonna sonora. I decadenti interni della villa gallese, inframezzati da rapidi flash sul paesaggio circostante, regalano allo spettatore un senso di forte inquietudine e disagio. Lo stesso discorso è applicabile alla colonna sonora, il cui tema principale (eseguito da un unico violino) è in grado di rendere l’atmosfera ancora più cupa e tesa.
In conclusione
A Dark Song è un film piccolo ma molto interessante. Consigliata agli amanti degli horror psicologici, la pellicola potrà regalare emozioni anche agli spettatori che prediligono i ritmi lenti e le atmosfere oniriche. Un’ottima prova di esordio: incrociamo le dita per il futuro.
Riassunto
A Dark Song è un’opera prima di grande valore, in grado di lasciare un segno tangibile nel panorama dell’horror indipendente moderno. Come un vino d’annata, il film va assaporato lentamente per poter godere appieno di tutte le sfumature e piccoli tocchi di classe presenti al suo interno. Caldamente consigliato.