Vivere in provincia garantisce certi privilegi e non mi sto riferendo ai ritmi di vita più lenti e all’aria che, in linea teorica, “dovrebbe essere più pura e limpida”. No, cari lettori, mi sto riferendo a un’altra cosa, ovvero al fatto che in provincia era ed è ancora possibile trovare attrazioni e svaghi che, nelle grandi città, sono praticamente scomparsi.
Prendiamo il caso delle fiere e, più nello specifico, parliamo di uno degli elementi che ogni buona festa di paese doveva avere: le giostre. Seggiolini volanti (noti più prosaicamente come calcinculo), autoscontri, musica da discoteca, colori, profumi, luci… E poi c’era lei, l’unica, la sola. Di che cosa stiamo parlando? Ovviamente della Sala giochi.
Questo misterioso oggetto – che forse oggi ai più farà venire in mente un locale fumoso, pieno di slot machines e loschi individui – ha rappresentato un’ottima palestra, un banco di prova quasi imprescindibile per ogni sbarbatello che si avvicinava più o meno timidamente al mondo dei videogiochi. Questo luogo, per alcuni ancora oggi mitologico, rappresentava però l’ultimo gradino nella crescita personale di ogni giocatore ed era preceduto da una serie di altri momenti e attività.
Gamer in training, step one: gathering intel
Posso affermare, partendo dalla mia esperienza personale, che per un ragazzo cresciuto in provincia tra la fine degli anni Ottanta e la prima metà degli anni Novanta, il “giocare ai videogiochi” era un’attività abbastanza codificata e che seguiva delle procedure alquanto standardizzate. Il primo step che ogni aspirante gamer doveva superare era reperire informazioni fresche sulle tendenze e i giochi più cool del momento. La Rete appariva ancora come qualcosa di elitario e non accessibile alle masse; bisognava allora correre nella più vicina edicola per reperire le riviste e i magazine specializzati che, grazie alle loro copertine colorate e alle loro recensioni quasi sempre ricche di spunti interessanti, permettevano al novello videogiocatore di farsi un’idea su come muoversi e su cosa fosse in o out.
Gamer in training, step two: a brand new battlestation
Se la fase dell’acquisto della rivista rappresentava la porta d’ingresso all’esperienza del videogiocare, il secondo livello era l’acquisto della propria battlestation, la propria “bestia da gioco”. Chi possedeva denaro poteva già permettersi una delle prime console che stavano comparendo sul mercato italiano e, risparmiando come un forsennato, riusciva a comprarsi la cartuccia del suo gioco preferito, scatenando l’invidia ma anche la stima all’interno della sua “cumpa”. C’era poi chi, grazie a un parente o amico, possedeva un home computer come un Commodore 64, un Amiga o perfino un PC (un 386 o, per i più esigenti, un potentissimo 486).
Gamer in training, final step: Enter the arena!
Chi non era così fortunato da possedere in casa una di queste meraviglie della tecnica doveva affidarsi all’arrivo della Sala giochi che, per un arco di tempo limitato, avrebbe appagato la sua sete di videogiochi. Entrando in uno di questi locali la prima sensazione che si provava era di puro spaesamento, seguita dalla sensazione di essere finiti nel paese dei balocchi. A un lettore scafato, l’affermazione appena fatta potrebbe sembrare ingenua e fin troppo esagerata ma posso dire per esperienza che chiunque abbia almeno una volta nella vita messo piede in “sala” potrà confermare quanto detto.
A seconda delle annate e dei periodi dell’anno i gestori proponevano – oltre ai grandi classici come Pac Man, Galaga e Tetris – altre tipologie di giochi che, inevitabilmente, ricadevano in determinate categorie:
A. Giochi sportivi
B. Picchiaduro
C. Puzzle games
D. Platform
Come si può notare non c’è traccia di giochi single player ma, come è logico, la “sala” era pensata come una sorta di metaforica arena in cui i novelli gladiatori si sarebbero affrontati a colpi di mezzelune, pulsanti premuti con veemenza e improperi lanciati più o meno ad alta voce. Amicizie venivano messe a dura prova, rivalità nascevano e duravano (fortunatamente) lo spazio di un mattino. Quello che veramente importava non era tanto farsi un nome o una reputazione ma era il puro divertimento senza pensieri e il sentirsi parte di una realtà comune, di un movimento che, pur di nicchia, sembrava essere destinato a crescere e prosperare per tanti anni. La Sala giochi, quindi, rappresentava la prima forma di multiplayer in real life, una forma se vogliamo di socializzazione e di aggregazione.
Quello che resta…
La seconda metà degli anni Novanta ha segnato l’inevitabile declino delle Sale giochi: con l’arrivo in Italia di una piccola “scatoletta grigia” venuta dal Sol Levante, capofila di una lunga serie di macchine next gen, il piccolo mondo antico dei cabinati ha lasciato il passo a una modernità fatta di portabilità, connessione online ovunque e (forse) un nuovo modo di concepire e di vivere il gaming.
Ma che cosa ci hanno lasciato le Sale giochi? Oltre a un mare di ricordi – e di giochi che, oggi, grazie al MAME sono nuovamente fruibili e giocabili senza troppi sforzi – possiamo dire che sono state un momento importante nella crescita dei singoli giocatori e, ritengo, possono rappresentare un “nobile antenato” della scena videoludica odierna.
… resta per sempre
Vorrei chiudere con un piccolo aneddoto. L’ultima volta che sono entrato in una sala giochi è stato esattamente nel 2013. Non era una “sala” qualunque ma era quella in cui, fin da ragazzo, mi ritrovavo insieme al mio gruppo di amici. Io e il gestore, un giostraio itinerante, eravamo come invecchiati insieme. Dopo avermi riconosciuto, il gestore iniziò a raccontarmi di come “quelle dannate macchinette portatili per il gioco” stavano rovinando la piazza e, se non ci fosse stato un rapido cambiamento nel business, anche lui sarebbe stato ben presto costretto ad abbandonare la professione. Mentre si dilungava nelle sue elucubrazioni sullo stato delle cose, mi indicò un cabinato in un angolo, a suo dire una novità, che forse avrebbe attirato più persone.
Il gioco in questione era Fighting Mania: Fist of the North Star, uscito sul mercato giapponese la bellezza di tredici anni prima, picchiaduro nel quale bisognava letteralmente calarsi nei panni di Ken, Raoh, Toki e compagnia. Infilati i piccoli guantoni in dotazione e scelto il livello da cui partire provai una strana, piacevole sensazione: essere immersi, ancora una volta, in un piccolo ma importante frammento di storia.