Nato dalla fantasia dello scrittore Len Wein e dell’artista Bernie Wrightson, Swamp Thing è sempre stato uno dei personaggi più interessanti e, paradossalmente, meno sfruttati dell’universo DC.

Oggi ci soffermeremo su uno degli albi a fumetti che ha maggiormente segnato il destino del personaggio ma, prima di iniziare, è consigliabile fare una breve introduzione.

Bruciare di rabbia: lo stai facendo… insomma…

Deep down in Louisiana: le origini

Comparso per la prima volta nell’ormai lontano 1971, il personaggio ha una origin story abbastanza classica ma sempre molto toccante. Un brillante scienziato chiamato Alec Holland sta lavorando nelle paludi della Louisiana a un importante progetto top secret, una formula in grado di far crescere la vegetazione anche nei luoghi più inospitali e impervi del globo.

La sua ricerca viene però ostacolata dai loschi piani di Nathan Ellery che, pur di entrare in possesso della formula miracolosa, arriverà a piazzare una bomba nel laboratorio di Holland. Avvolto dalle fiamme e coperto da varie sostanze chimiche, il nostro eroe riuscirà a salvarsi miracolosamente dalla morte buttandosi in una delle paludi circostanti.

Il prezzo da pagare, però, è altissimo: Alec Holland sarà infatti tramutato in Swamp Thing, una creatura dall’aspetto orribile che da quel giorno cercherà non solo vendetta ma si batterà per sconfiggere il male, in ogni sua forma.

Night of the living… Thing?!?

La prima run (1972-1976). Una questione di identità

Nei primi anni Settanta Swamp Thing conobbe un picco di popolarità, culminato con la pubblicazione di una serie mensile che sarebbe ininterrottamente durata dal 1972 al 1976.

Durante questa prima run, le avventure di Swamp Thing seguivano un canovaccio abbastanza classico. Il nostro eroe veniva infatti messo di fronte a una serie di monsters of the week sempre più potenti e bizzarri. Oltre a mettere i bastoni tra le ruote ai suoi nemici, il protagonista tentava contemporaneamente di trovare un modo per poter invertire il processo che lo aveva trasformato in quell’essere mostruoso.

Proprio quest’ultimo punto, che avrebbe potuto essere la chiave di volta nel processo di crescita del personaggio, venne malamente sfruttato dagli autori che si susseguirono alla guida della serie. Nel corso dei mesi, infatti, i lettori più attenti iniziarono ad accorgersi che, sotto l’aura tragica dell’uomo trasformato in mostro, si nascondeva in verità un messaggio molto più semplice e terra terra.

In quelle prime storie, infatti, Alec Holland sembrava chiaramente non accettare il suo destino di “uomo reso pianta” preferendo, al contrario, ritornare a una situazione ideale, nella quale lui era un semplice e ordinario scienziato, senza alcun tipo di potere o responsabilità (se non quella di far avanzare il progresso scientifico).

Alan Moore e il nuovo corso di Swamp Thing (1984)

Nel 1976, dopo quattro anni di successi, la serie di Swamp Thing iniziò a entrare in un lento e all’apparenza irreversibile declino. La DC provò in ogni modo a incrementare le vendite, introducendo all’interno delle avventure del nostro eroe personaggi fantasy, alieni e perfino – manco fossimo in un fotoromanzo di serie Z – il fratello del protagonista.

Nessuna delle mosse riuscì a far aumentare il gradimento del pubblico che, lentamente, stava lentamente perdendo qualunque tipo di rispetto per un personaggio che, fino a pochi anni prima, era sembrato un asset notevole.

Nel gennaio del 1984 i vertici della DC rivolsero le loro attenzioni verso un talento britannico: Alan Moore. All’epoca ancora relativamente poco conosciuto, il giovane venne messo di fronte alla classica offerta che non si poteva rifiutare: i boss della DC, infatti, dissero esplicitamente che Moore aveva carta bianca e poteva riplasmare Swamp Thing a suo piacimento.

Quello che sarebbe accaduto in seguito è ormai storia…

Rivoluzionare secondo le regole: The Anatomy Lesson

Dopo una prima storia intitolata (guarda caso) Loose Ends, nella quale Moore fa letteralmente piazza pulita di una parte della lore costruita fino a quel momento, l’autore britannico scrive quella che ancora oggi può essere considerata come l’avventura più bella mai narrata su Swamp Thing: The Anatomy Lesson.

La vicenda è raccontata mediante la tecnica del flashback da Jason Woodrue, uno scienziato chiamato a Washington per capire i veri motivi della trasformazione di Alec Holland in quell’aberrazione conosciuta con il nome di Swamp Thing.

Woodrue, che in seguito con l’alias Floronic Man diventerà uno dei cattivi più interessanti dell’intera run di Moore, disseziona più o meno metaforicamente la creatura e ben presto viene a scoprire un atroce quanto importante segreto…

Who am I? Un’identità frantumata

The Anatomy Lesson si configura come una delle prove più alte mai fornite da Alan Moore nel corso della sua lunga carriera. La vicenda si snoda in modo semplice ma sa regalare allo stesso tempo alcuni spunti filosofici di notevole interesse.

Per prima cosa, l’autore britannico rivoluzione la origin story del personaggio principale senza però andare contro ai principi e alle idee che avevano guidato negli anni Settanta i creatori Wein e Wrightson. Al contrario, Moore compie quell’operazione che, in passato, nessuno dei suoi predecessori aveva mai osato fare, ovvero quella di mostrare come, in ambito supereroistico e non solo, i ricordi e il passato non sono sempre come ce li ricordiamo o come ci vengono raccontati.

Come in una tragedia classica, la presa di coscienza da parte della creatura genera una serie di eventi a catena che portano irrimediabilmente a frantumare e distruggere la realtà in cui i protagonisti si muovono e vivono. Dopo la scoperta della verità, Swamp Thing non sarà più lo stesso e così, di riflesso, i suoi lettori.

A silent, muddy Thing

Se, nel corso della run classica, le idee e i pensieri del protagonista erano presentati attraverso una lunga serie di didascalie, The Anatomy Lesson sceglie una strada diversa e, in un certo senso, non convenzionale e “pericolosa”.

Nel corso della vicenda, infatti, il protagonista pronuncia in tutto solo sei parole e, a differenza del passato, non ci sono didascalie ad aiutare il lettore a “leggere” lo stato d’animo della creatura.

Questa scelta si rivela essere quella vincente, soprattutto in una storia che fa dell’emotività uno degli elementi cardine. I lettori sono infatti chiamati a interpretare le azioni del protagonista attraverso due elementi: la narrazione di Woodrue e la mimica della creatura.

Qui entra in scena un secondo protagonista che, insieme a Moore, è il vero artefice del successo non solo di quest’albo ma dell’intera run: il disegnatore Steve Bissette. Attraverso scelte estetiche non convenzionali – tra le quali si può ricordare l’uso di vignette di forma e dimensione sempre variabile – l’artista ci presenta uno Swamp Thing inedito.

Bissette delinea infatti una bestia selvaggia che dopo aver scoperto la sua vera identità la abbraccia in toto con dolore, rassegnazione ma anche con un altissimo senso del dovere. Swamp Thing non cerca di essere qualcuno ma diventa qualcuno: l’era delle illusioni è finita e la realtà, in tutta la sua crudezza, attende il protagonista al di là di quello specchio frantumato che è la sua esistenza passata.

In conclusione

La run di Alan Moore su Swamp Thing e The Anatomy Lesson sono ancora oggi dei classici del genere. Caldamente consigliati anche ai neofiti del personaggio, sono ancora nell’anno di grazia 2016 una lettura piacevole ma allo stesso tempo ricca di implicazioni filosofiche non di poco conto o banali.

Alan Moore, dopo aver lasciato la serie nel 1987, sarebbe diventato l’autore di alcuni classici del calibro di Watchmen, Batman: The Killing Joke e From Hell. La serie, le cui vendite avrebbero toccata vette considerevoli, decise di lasciarsi tentare dal mondo del cinema e della televisione.

Per essere educati posso dire che i risultati furono molto al di sotto delle aspettative: due film brutterelli, una serie televisiva oggi di culto ma all’epoca considerata sconclusionata e camp ma soprattutto questo che, forse, rappresenta il degno contrappasso al lavoro fatto dal signor Moore: