Come i nostri lettori avranno ampiamente intuito, il sottoscritto nutre particolari simpatie per alcuni supereroi dell’universo Marvel e DC. Uno di questi, del quale abbiamo già parlato in due occasioni, è The Punisher.

Perché a tornare, per l’ennesima volta, su questo personaggio? Credo che, a causa di una storia editoriale travagliata e alcune scelte autoriali totalmente errate, questo antieroe creato ormai nel lontano 1974 non abbia mai avuto una ribalta vera e propria ma sia sempre stato relegato, per scelta o per forza, al ruolo di comprimario di lusso.

La situazione appena descritta sembrò cambiare nei primi anni Duemila, periodo in cui il vigilante italoamericano conobbe una seconda giovinezza grazie all’accoppiata Garth Ennis e Steve Dillon.

Dopo una breve limited series – conosciuta con il nome di Welcome Back, Frank – pubblicata in 12 numeri nel 2000, il “terribile duo” tornò in azione nel corso dell’anno successivo, questa volta con una run composta da 37 uscite.

La nuova serie, pur mantenendo alcuni caratteri della limited series, risultava avere un tono più maturo e leggermente meno scanzonato rispetto al passato, riuscendo perfino a introdurre alcuni piccoli ma efficaci momenti di critica alla società americana.

Do not fall, do not

Nel gennaio 2002 usciva nelle edicole statunitensi il sesto numero della serie, intitolato Do Not Fall in New York City. La vicenda, ambientata a pochi mesi dall’attentato alle Torri Gemelle, rappresenta un ottimo esempio del “nuovo corso” del Punitore.

Il numero si apre nel bel mezzo dell’azione. Joe Perrett, un onesto uomo d’affari, perde nel giro di pochi giorni il lavoro e la custodia dei figli. Segnato da questi fatti, l’uomo viene colto da un raptus omicida e decide di sterminare la sua famiglia. Stanco, sfiduciato e braccato, Perrett non sa di avere alle calcagna anche il vigilante col teschio sul petto.

Raccontata in questo modo, la vicenda pare essere di stampo classico e alquanto banale: Castle individua la sua “preda”, la pedina, la cattura e infine dispensa la giusta “punizione”. In realtà le cose non stanno affatto così. Do not fall in New York City, infatti, nasconde al suo interno due interessanti elementi, che vanno esplicitati per mostrare la grandezza di questa piccola vicenda.

Quello che avrei potuto essere: due uomini a confronto

In primo luogo, la preda a cui Castle sta dando la caccia è un ex veterano del Vietnam. Nel monologo interiore – uno dei “marchi di fabbrica” di Ennis – che apre la vicenda, il Punitore ricorda di aver conosciuto Perrett proprio nel corso di quel conflitto: l’uomo, infatti, gli aveva salvato la vita durante una sortita contro i vietcong.

Ciò che però differenzia la “preda” dal “predatore” è ciò che accade dopo la guerra. I due tornano a casa ma hanno destini molto diversi: sono entrambi profondamente segnati dalle vicende belliche ma mentre Castle si lascia divorare dall’oscurità, Perrett cerca in tutti i modi di rimettersi in carreggiata e di tornare “nel club delle persone comuni”.

Proprio questo tema – l’essere parte di un club, di un gruppo ristretto ed esclusivo – pervade l’intero fumetto e Castle non manca di rimarcare che se è vero che i piccoli gruppi possono dare apparenti sicurezze e stabilità ai propri membri (un buon lavoro, un tetto sotto la testa, una bella moglie…), una volta che si cade – ovvero quando per sfortuna o noncuranza si perde tutto – nessuno è disposto a “fare rete”, a recuperare quello che è ormai diventato un reietto. “Il club ti chiude le porte in faccia e tu finisci tra i dannati” ripete tra sé e sé il vigilante che, forse, dannato lo è, in parte.

La missione di Castle, quindi, si configura come un ultimo e disperato tentativo di “redimere” Perrett del quale invidia, forse, la capacità di essersi lasciato alle spalle gli orrori bellici ma di cui non perdona (e come potrebbe, d’altronde) il triplice omicidio di cui si è macchiato.

La nuova New York City: i sommersi e i salvati

Il secondo elemento che rende Do not Fall in New York City un ottima storia è la forte critica che il Punitore esprime nei confronti del presunto “nuovo corso” di New York e della strategia politica dell’allora sindaco Rudy Giuliani.

Quest’ultimo, attraverso lo slogan “Zero Tolerance”, si era presentato come il fautore di una nuova Big Apple, più sicura e meno violenta. Una città, nelle intenzioni del sindaco, in cui tutto doveva essere perfetto, ordinato e “turistico”: “un grande Luna Park”, come il Punitore afferma a metà della vicenda.

Nel corso della storia Castle non perde occasione per ricordare che, sotto la superficie luccicante e scintillante, la Big Apple rimane un ricettacolo di sporco, violenza e rabbia repressa. Lo stesso Perrett è un mirabile esempio-prodotto di questo nuovo corso, un uomo all’apparenza pacifico che però, persa la patina di “normalità”, si lascia divorare dalla sua anima più oscura e nera.

La critica sociale non è solamente portata avanti dai testi di Ennis ma è anche ben visibile nei disegni di Dillon e nelle chine di Palmirotti che alternano momenti di scintillante colore a sprazzi violenti e furiosi fatti di neri e blu elettrico che lasciano nel lettore la sensazione che la vera anima di New York non sia la Disneyland tanto voluta dal sindaco italoamericano.

Nel finale, sotto una pioggia battente, questa tendenza all’alternanza cromatica e ancora più evidente. L’ultima tavola, molto contrastata e con uno sfondo appena accennato, rende perfettamente l’idea della schizofrenia imperante nella New York dei primi Duemila. Paradiso e inferno al tempo stesso, teatro di guerra in cui anime senza requie si muovono, alla ricerca di qualcosa o qualcuno per cui vivere (o, forse, morire).

Ti ho preso: in conclusione

Do Not Fall in New York City è un ottima storia per capire e apprezzare il Punitore di Garth Ennis. Sempre in bilico tra lucida follia e cinico realismo, la vicenda è consigliata non solo ai neofiti ma anche a coloro che amano e seguono il vigilante col teschio sul petto da tempo.

A più di dieci anni dall’uscita, la storia continua a essere fresca e ispirata, un vero e proprio “miracolo” considerando che buona parte della produzione di quegli anni è ho invecchiata male oppure è abbastanza trascurabile.