Nel 2013 usciva nelle sale The Wolverine, secondo capitolo della trilogia che, il prossimo anno si concluderà con l’atteso Logan, ultima prova di Hugh Jackman nei panni del mutante canadese.

Pur nettamente più godibile rispetto allo sciatto Origins del 2009, The Wolverine continuava a non rendere giustizia al materiale di partenza, ovvero una limited series uscita negli Stati Uniti tra il settembre e il dicembre del 1982. L’opera, composta da quattro uscite e intitolata semplicemente Wolverine, nacque dalla collaborazione di due grandissimi artisti, ovvero Chris Claremont e Frank Miller.

I am the best there is in what I do. Genesi di una storia

Esiste una leggenda sulla genesi di questa limited series che, come ogni leggenda, nasconde forse un fondo di verità. Claremont,autore di una delle run più belle e iconiche su X-Men, decise di mettere alla prova la popolarità di Wolverine, calandolo in un contesto totalmente nuovo e lontano dai vari elementi che avevano reso (e avrebbero continuato a farlo, in futuro) l’artigliato canadese uno degli X-Men più noti e amati.

Per raggiungere il suo scopo, l’autore si rivolse a Frank Miller che, oltre a occuparsi delle matite, avrebbe partecipato alla scrittura della storia, inserendo al suo interno alcuni elementi che avrebbero trovato la piena maturazione in opere come The Dark Knight Returns, Ronin e 300.

Un canadese dall’altro lato del globo

La storia racconta dai due autori si svolge inizialmente in un setting famigliare, il Canada, ma si trasferisce ben presto in un contesto totalmente nuovo per l’eroe, il Giappone.

Nella terra del Sol Levante Wolverine giungerà per incontrare il suo amore Mariko, figlia del potente boss della Yakuza Shingen Yashida. Dopo aver scoperto che la donna è stata promessa in sposa a un boss, il mutante canadese farà di tutto per evitare questo terribile matrimonio d’interesse.

Aiutato dall’assassina Yukio, Wolverine ben presto capirà che il suo soggiorno in Giappone è molto più importante delle apparenze e rappresenta, in fin dei conti, un viaggio interiore segnato da scoperte, contraddizioni e prese di coscienza che lasceranno strascichi perpetui sulla vita del personaggio.

Colori al servizio di una storia

Dal punto di vista grafico, la limited series è pesantemente influenzata dall’estetica milleriana che aveva trovato la sua piena espressione nella run di quest’ultimo su Devil. I personaggi, sia quelli principali che secondari, appaiono molto ben definiti. Gli sfondi e l’azione, fin dalle prime tavole, si presentano in modo vibrante e mai caotico.

Un ottimo lavoro viene anche svolto dagli inchiostratori che, pur rimanendo saldamente ancorati su scelte cromatiche abbastanza tradizionali per l’epoca, riescono a rendere ancora più profonda e piacevole l’esperienza ai lettori.

Decostruire, sovvertire, rifondare. Frank Miller e Wolverine

Se è vero che il merito dell’ossatura base che sorregge la storia è di Chris Claremont, è altrettanto evidente che l’apporto allo script fornito da Frank Miller è di prima qualità. Paradossalmente, rileggendo Wolverine mi sono reso conto che è forse una delle vicende più milleriane in circolazione.

A mutant fell, a man rises

Che cosa intendo dire con tale affermazione? Le pagine della limited series permettono a Frank Miller di mettere sul tappeto alcune tematiche care che, come detto all’inizio, avrebbero trovato piena maturazione nelle sue opere successive.

In primo luogo l’autore si diverte a decostruire e a sovvertire tutte le certezze che il lettore può nutrire su Wolverine. Nel corso dei primi numeri, infatti il canadese (che fino a quel momento era stato caratterizzato come un mutante imbattibile) si renderà perfettamente conto che il suo stile di lotta, violento e animalesco, mal si intona al Giappone e ai suoi guerrieri.

Wolverine è una bestia senza controllo e senza disciplina, un alunno molto dotato che però – vuoi per boria, vuoi per disattenzione – crede di poter risolvere ogni situazione ripetendo ad nauseam il suo compitino. Per questo motivo, nei primi numeri, il nostro eroe raccoglie una serie di batoste non indifferenti che lo lasciano stordito e demotivato.

Umiliato e sconfitto, Wolverine è chiamato a compiere un’azione inedita per il personaggio, ovvero fermarsi e guardare in sé stesso. Grazie all’aiuto di Yukio, il protagonista compirà un metaforico viaggio all’interno della sua anima che, ben presto, lo porterà a una lenta e progressiva ricostruzione della sua persona.

I’m not a beast

Se, come detto, i primi due numeri della limited series sono dedicati alla caduta dell’eroe, gli ultimi sono interamente occupati dalla rinascita di Wolverine.

Ogni processo – sembra ricordarci Miller – è caratterizzato da una pars destruens, durante la quale siamo chiamati ad abbattere i nostri personali idoli, demoni interiori e pregiudizi. Tale processo, quasi sempre doloroso ma necessario, dovrebbe essere seguito da una pars construens, nella quale dobbiamo fare i conti con quello che siamo stati e saremo, recuperando allo stesso tempo ciò che c’è di buono in noi.

Il canadese, dopo essere passato all’interno di un più o meno metaforico inferno personale, ne riemerge profondamente segnato e abbraccia la bestia che in lui, non scordando però che ogni persona è un meraviglioso e complicatissimo puzzle fatto di pezzi diversi e più o meno connessi tra loro.

I am a man

La pura bestia si fa essere umano, pieno di contraddizioni, affermando a conclusione del terzo numero:

The key isn’t winning – or losing. It’s making the attempt. I may never be what I ought to be, want to be — but how will I know unless I try? Sure, it’s scary. But what’s the alternative? Stagnation – a safer, more terrible form of death. Not of the body, but of the spirit.

Se è vero che all’apparenza il messaggio sembra essere tutto all’insegna dell’ottimismo più sfrenato, credo che esso possa anche essere letto sotto un’altra luce, molto più realista e con i piedi per terra.

Wolverine, come ogni uomo o donna su questa terra, ha sperimentato la sconfitta e sa bene che, forse, non potrà mai realizzare tutti i suoi sogni o appagare i suoi istinti e desideri.  Allo stesso tempo, però, “ci prova” ovvero tenta con le unghie e con i denti di compiere azioni che diano senso al suo operato, evitando così l’immobilismo che, come ci viene ricordato, è forse il paradosso incarnato: luogo sicuro e all’apparenza confortevole che però non è altro che la morte dello spirito umano.

In conclusione

Wolverine è un’opera che, nel suo piccolo, ha segnato un’epoca per una lunga serie di motivi. Oltre ad aver regalato ulteriore popolarità al mutante canadese, la storia può essere letta come un piccolo saggio sulla complessità umana, sulle nostre debolezze e sul posto che abbiamo giornalmente nel mondo.

Intervistato a inizio 2016 dall’Hollywood Reporter a proposito di diversi temi, Frank Miller ha proposto una definizione di uno dei personaggi a lui più cari, Batman, che credo possa calzare perfettamente anche per il Wolverine rappresentato in questa limited series:

Batman isn’t interesting because he has a cool car. It’s great that he has a cool car. But he’s interesting because he straightens the world out. And he brings order to a very chaotic world. […] You need somebody, even if it’s a fictional character, to tell you that the world makes sense and that the good guys can win. That’s what these heroes are for.

Se è vero, come cantava qualcuno, che we can be heroes just for one day, gli eroi milleriani ci insegnano che ogni giorno, al suono della sveglia, siamo chiamati a un compito non semplice ma fondamentale: mettere in ordine un puzzle che, a prima vista, ci può sembrare caotico e privo di senso.

La tentazione, dannatamente umana, sarebbe quella di rinchiudersi in sé stessi, nella completa inattività o nella critica nichilista più o meno radicale allo stato delle cose. Ma, come chiosa sornione Miller, tutti hanno bisogno di qualcuno in grado di fornire un buon motivo per andare avanti e per dire che forse, scavando più a fondo, la realtà in cui viviamo può essere trasformata anche senza possedere milioni di dollari sul conto in banca o artigli indistruttibili in adamantio. That’s what heroes are for.