Nel 1992 un imberbe Luca riceveva, in un piovoso giorno d’autunno, uno dei regali più belli mai avuti fino a quel momento: la cassetta di un gioco per Commodore 64 intitolato Dylan Dog: gli uccisori. Quel programma, primo esperimento che sarebbe stato seguito da una lunga serie di titoli simili, avrebbe segnato un momento molto importante non solo nella vita di quel giovane videogiocatore di provincia ma anche, e soprattutto, nella storia del rapporto tra i videogiochi e il fumetto in Italia. A posteriori, un esperimento fallito che però ha lasciato un’eredità da non dimenticare né da sottovalutare.

Uscito nel 1992, Dylan Dog: gli uccisori fu sviluppato dalla Simulmondo non solo per l’home computer della grande C ma anche per Amiga e per PC. La software house, fondata a Bologna nel 1987 da Francesco Carlà, aveva già all’attivo alcuni titoli di stampo sportivo come F.1 Manager (1989), 1000 Miglia (1991) e 3D World Boxing (1992), quest’ultimo titolo che attraverso una serie di accorgimenti grafici semplici – e forse fin troppo ingenui agli occhi dei videogiocatori di oggi – davano l’impressione di muoversi e operare in un mondo a tre dimensioni.

Nel corso del 1992 la Simulmondo iniziò a lanciarsi in un nuovo genere, ovvero quello del platform gaming. Il primo titolo che inaugurò questa nuova fase aveva come protagonista uno degli eroi indiscussi del fumetto italiano della prima metà degli anni Novanta: Dylan Dog. Ideato nel 1986 dalla mente di Tiziano Sclavi ed edito dalla Bonelli, quel fumetto ha segnato l’immaginario di molti pre- e post adolescenti di quegli anni. La serie, infatti, era un frullato di citazioni di serie televisive, film e altri fumetti non molto conosciuti nel nostro paese. Dotati di copertine disegnate e inchiostrate in maniera suggestiva, gli albi dell’Indagatore dell’Incubo sapevano regalare al lettore qualche chicca inaspettata, qualche “piccolo brivido” in grado di mettere un po’ di pepe a vicende a volte grottesche, a volte totalmente e sfacciatamente gore.

La software house di Bologna scelse di inaugurare il filone platform prendendo spunto da uno dei primi, e forse meglio riusciti, albi di Dylan Dog, il numero 5: Gli Uccisori. La storia è molto semplice da riassumere. Londra è colpita da una misteriosa, quanto violenta, ondata di omicidi: persone comuni iniziano a impazzire senza un apparente motivo, seminando morte e distruzione per le strade. Dylan Dog viene ingaggiato per capire le vere cause del fenomeno che, a differenza di quanto viene ripetutamente sostenuto da Scotland Yard, non può essere semplicemente riconducibile alla terribile calura estiva…

Il gioco, partendo da questo spunto, si presenta come una sorta di sequel alle vicende del fumetto, presentando però una sorta di twist interessante. Nei panni di Dylan Dog, i giocatori sono infatti chiamati a vivere uno dei sogni, o forse sarebbe meglio dire incubi ricorrenti, del protagonista. Il gioco, infatti, non è altro che una riproposizione della vicenda descritta nell’albo ma in chiave onirica. Come nei migliori (peggiori?) incubi, Dylan dovrà vedersela contro i loschi piani di un certo professor Evil (sorvoliamo sulla scelta del cognome) che, utilizzando una potente droga, ha trasformato in “uccisori” alcuni ignari partecipanti a una festa in un castello poco fuori Londra, a cui lo stesso detective è stato invitato.

Le meccaniche di gioco sono abbastanza semplici: il giocatore è all’interno di ambienti a schermate multiple, con visuale laterale, che possono rappresentare una o più stanze del maniero. Dylan deve affrontare sfide sempre più difficili, armato solo della sua fida pistola (dai colpi contati e molto difficili da recuperare in game) oppure dei suoi cazzotti, scenici ma poco d’impatto sull’energia dei nemici.
Pur nella sua apparente semplicità, il gioco è piagato da alcuni problemi non di poco conto: lentezza nei movimenti del protagonista, timing quasi perfetto nello sferrare/parare i colpi ma soprattutto una delle cose che, all’epoca, hanno fatto arrabbiare e scardinare ai giocatori interi Pantheon di divinità più o meno note: il tempo limite e la poca energia del protagonista. Il gioco, infatti, si svolge nel corso di una notte – è un sogno, non dimentichiamoci – e se non si riesce a sconfiggere il temibile Evil prima del sorgere del sole, si arriva alla fatidica schermata del game over: un Dylan seminudo, tutto sudato nel suo letto… Quale visione…
Al netto dei difetti sopra elencati, la grafica per l’epoca riusciva a compiere onestamente il suo dovere, senza però far gridare al miracolo. Gli sprite a volte si perdevano all’interno dei fondali anche se l’iconica divisa di Dylan (giacca nera, jeans e camicia rossa) era sempre ben visibile e chiara sullo schermo.

Il gioco, che uscì sia nei negozi specializzati che nelle edicole, ottenne un buon successo e spinse la Simulmondo a sviluppare giochi analoghi – questa volta distribuiti solo in edicola a cadenza mensile – utilizzando anche altri personaggi dell’universo bonelliano come Tex Willer. L’hype, purtroppo, durò lo spazio di un mattino e nel giro di poco tempo la software house fu costretta a sospendere la pubblicazione di quei giochi. Lentamente la Simulmondo, che sembrava essere the hottest thing in town, entrò in una lenta ma inesorabile parabola discendente che portò alla sua definitiva chiusura nel 1999, alle porte di un nuovo millennio e di un nuovo modo di intendere i videogames.

Posiamo per un attimo gli occhiali della nostalgia e torniamo a oggi, al 2016: che cosa possiamo imparare dall’esperienza della Simulmondo e da Dylan Dog: gli uccisori? Credo che il tentativo di quella software house, seppur ingenuo, ci permette di capire alcune cose. In primo luogo, i gusti delle persone sono sì mutevoli ma, se un prodotto vende e si basa su una licenza forte, bisogna mantenere altra la qualità e mai abbassare gli standard (una delle critiche che furono fatte ai titoli su Dylan Dog usciti negli anni successivi è che erano un more of the same ma concepito al risparmio). Infine, pensando al panorama video ludico di oggi in cui le grandi software house a volte soffrono di fronte a piccoli ma agguerriti sviluppatori che, pur con pochi soldi, riescono a partorire giochi dannatamente addictive, sarebbe forse giunto il momento di riattualizzare o sviluppare ex novo piccole produzioni dedicate ai nostri eroi di inchiostro e carta: Dylan, Martin, Tex… parlo proprio di voi.